Corpus Pasolini Recensioni

NON È PER LA FELICITA’ CHE SI FA LA RIVOLUZIONE?

Giorgio Felicetti ha ideato, costruito e interpretato uno spettacolo “non” rassicurante.
Ha messo in arte il corpus di Pasolini, fatto di fragilità ossuta, di magrezza mostrata, di articoli di denuncia e scritti sulla carne, rabbia civile in forma di poesia.
La drammaturgia, essenziale, diretta, straniante, è sviscerata addosso al pubblico con torrentizia lucidità, in un’atmosfera di confidenza intima che Felicetti ha saputo creare con le scelte dei toni, con una scarna scenografia, con bellissime musiche dal vivo al servizio del testo. Corpus Pasolini è un tour nell’infamo della coscienza di ogni italiano, un inno alla ribellione, una condanna senza sconti nei confronti degli indifferenti.
Felicetti inforca gli occhiali di Pier Paolo e con magistrale prova d’attore sgrana il rosario delle parole di un poeta rivoluzionario, di un Cristo lasciato solo, di un eroe troppo fedele all’amore per non scoperchiarne gli abissi. Al bravissimo Felicetti va il merito di una messa in scena feroce nella sua autenticità, fatta di citazioni azzeccate e troppo attuali per non farci sentire investiti, fatta di profezie e visioni impastate da un’angoscia innamorata; la stessa angoscia che in Pasolini diventava frenesia di resilienza, e che sormontava il vate e lo violentava, nell’urgenza della sua scrittura.
Giorgio Felicetti, nel suo cielo fatto di libri e film, nella sua oratoria mai sbraitata, con il cuore sospeso nel fervente cosmo pasoliniano, d illustra h mappe della giustizia mancata, la predestinazione alla sconfitta, la conturbante promessa di poesia nel fiume sassoso delle parole, la vita persa nella eco perenne della libertà, in quei pianti di lucciole di cui solamente uno come Pasolini poteva farsi carico.
E quando lo spettacolo si conclude nel corpo senza vita del poeta, lo spettatore è stordito, preso in mezzo allo spaesamento generato dalla gratitudine per l’opera teatrale, e dal ventre ancora nel dolore per quei colpi ricevuti dallo stesso Pasolini. Lo stordimento diventa urgenza di felicità, impellenza di rendere onore al poeta; leggendolo di nuovo, immediatamente, aspettando che finisca la notte, e venga l’ora dell’alba Insomma, si fa vorace la necessità della bellezza.
Si ha voglia di stare col naso all’insù a chiedersi “che cosa sono le nuvole?”

Pappe Barbara, giornalista, blogger e scrittore.

LA PUNTA DELLA LINGUA

“Il nome di Pasolini è un ottimo collutorio per i gargarismi, una formula adatta agli scongiuri, un brand spendibile all’occasione e all’occorrenza. Ottimo per le parentetiche e le subordinate.
Citare Pasolini assicura un’ottima accoglienza in società e nei salotti televisivi. Il lavoro che ha fatto Giorgio Felicetti è invece di una pasta diversa. Senza rimuovere i nodi problematici (e anzi affrontandoli di petto), Felicetti ha innanzitutto studiato la poesia, la narrativa, la polemistica e il cinema di Pasolini, raccordandoli alla sua biografia, per costruire, tassello dopo tassello, un’opera complessa e amorevole. Una volta tanto.”

Luigi Sassi, poeta e d. a. Festiva’ Poesia.

IL CORPO DEL POETA

“Quel corpo di Pasolini con il quale inizia lo spettacolo è di una verità straziante.
Il nudo referto medico delle ferite e dei traumi ci conduce in una vertigine di dolore.
Difficile era dare a Pasolini la propria voce e soprattutto il proprio corpo, ma Giorgio Felicetti lo ha  fatto magistralmente.
Il dialogo è non solo con le parole del grande friulano, ma anche le immagini e i suoni che sono parte integrante ed emozionante della drammaturgia.
Giorgio Felicetti ha portato sul palcoscenico il suo lavoro sul corpo e sulla parola di Pasolini in un modo potente, diretto, viscerale. Mi è piaciuto tutto, soprattutto il lavoro sui testi”.

Umberto Piersanti, poeta e romanziere.

NEX CATHEDRA

La scena è semplice, essenziale: una sedia da regista e, al centro, un piccolo tavolo.
L’attore entra, infila il giubbino di pelle beige, mette gli occhiali del poeta.
Si appoggia alla sedia, ed inizia. Chiede, forte: “Chi è Pasolini?”
E Pasolini risponde.
Inizia parlando della sua vita, della giovinezza e delle prime opere, cariche d’un sentimento straordinario e d’una vivissima sensibilità che lo portano però ‘ferocemente” ad avere i primi contrasti con la società e con l’opinione pubblica. L’attore si alza e si va a parare dietro il tavolo, dove appoggia un copione. Pensi che sia una trovata scontata per comodità scenica.
Si scoprirà che cosi non è. Le domande rivolte a Pasolini si fanno sempre più incalzanti e stizzite e si ha l’impressione di assistere a quella che più che un’intervista pare una serie di accusa, mosse dalla voce della borghesia, dal senso comune, a cui Pasolini risponde in modo sempre pacato ma sempre più accorato. Inizia a delinearsi allora l’immagine che quel tavolo a cui Giorgio Felicetti si appoggia sia il banco dell’imputato Pasolini, ma al tempo stesso una cattedra dalla quale fa partire come frecce da un arco i suoi pensieri anticonformisti e inesorabili che non risparmiano nessuno.
Egli subisce con mitezza, ma ribatte colpo su colpo, in un crescendo di “‘accuse”, dalla posizione di forza che il tavolo gli conferisce.
Imputato e Maestro, per la corte sterminata del pubblico italiano che segue il processo, che segue la lezione. C’è la torte critica al consumismo – la nuova forma autoritaria che rende uguali e schiavi gli individui attraverso i mass media – visti come un potere che parla da una posizione “rialzata” e privilegiata, “ex cathedra” insomma. Forse è qui però che egli percepisce la sua contraddizione: il posto privilegiato che ha nella cultura italiana e nel mondo degli intellettuali, dall’alto del suo tavolo di tribunale o cattedra che sia, lo rende controllabile dal potere, limitato e profondamente incompreso.
Ecco che l’attore getta il copione. Ecco che Pasolini rifiuta di continuare il suo discorso per lasciar fuoriuscire parole vere dal profondo del suo cuore, parole che non possono essere contenute dall’angustia di una cattedra. Il tavolo viene rovesciato. L’imputato si erge contro i giudici, il maestro abbandona il suo posto per farsi tra i discepoli e Pasolini, nel momento stesso in cui abbatte la cattedra, ha già firmato la sua condanna a morte. Appare sullo sfondo la scena, dal suo film Il Vangelo secondo Matteo, della crocifissione di Cristo, ribellatosi ai rabbini ed a “Cesare” per offrirsi in sacrifico, come il corpo dell’attore-Pasolini, e lasciare agli uomini la più grande lezione d’amore. Veramente molto emozionante, bellissimo lo spettacolo.

Paolo Balocco, “Scuola di Platea”